tre a zero

pasolini partita di pallone

Scuola – Orlando tre a zero. Un mese e mezzo e tre colpi ben assestati. Oggi, lunedì 3 novembre, è arrivata la terza maestra. Ho lasciato Orlando in classe. A malincuore. La nuova maestra è sicura fino al 10 novembre (una settimana da oggi). Ma quasi sicuramente resterà lei. Dicono.

Mi sembra superfluo sottolineare i paradossi di una burocrazia anchilosata – semmai ne esiste una non anchilosata – che stabilisce da sola le regole del gioco. No. Voglio parlare della madre modello, quella signora sorridente che mi sta di fronte mentre io fumo di indecisione e quasi quasi mi volto, entro in classe e me lo porto a casa subito.

Ma no. È una questione di carattere. Mi presento.

Allunga la mano verso di me e mi dice il suo nome corredato di referenze: rappresentante di classe dell’altra sezione.

Piacere, Monica.

Niente da aggiungere. Il mio curriculum è poca cosa.

Lei si gonfia.

Mia figlia non ha mai pianto.

Il mio sguardo forse è eloquente. Ma lei continua.

I bambini si legano all’ambiente prima che alla maestra. E poi ogni bambino è diverso. LA MIA NON HA MAI PIANTO. La figlia di Elisa (solo più tardi specificherà che si tratta di una sua amica) invece piangeva sempre.

La mamma modello non guarda in faccia nessuno. Nemmeno l’amica del cuore. Lei è la prima della classe. E sua figlia sta seguendo le sue orme. Madre e figlia sono una coppia perfetta, di quelle che non danno fastidio a nessuno. Anzi. Solidali con la struttura, efficienti, collaborative, sempre pronte a ricordarti come stanno le cose, a lavorare perché tutto sia proprio come deve essere.

Cara mamma modello. Io non sono perfetta. Per niente. Non sono nata per non dare fastidio, anzi, fin da piccola disinnesco meccanismi, o ci provo. Per questo la punta delle mie dita è bruciacchiata. Non collaboro. Si sa. Per questo il mio curriculum è ridicolo. Ma soprattutto, cara mamma modello, lascia piangere ogni tanto tua figlia. Sarà per lei un gran regalo.

zero in condotta

zero de condiute jean vigo

Inizia così la nostra carriera scolastica. Tre anni e mezzo e un’espulsione.

Martedì siamo tornati a scuola evitando il certificato medico da portare dopo cinque giorni di assenza (viene calcolato anche il weekend). A mezzogiorno la maestra mi ha chiamato per riconsegnarmi Orlando in lacrime. All’uscita lui teneva in mano la sua cartellina dei disegni e la fototessera utilizzata per mettere le presenze. Io venivo esplicitamente invitata a firmare per rinunciare all’iscrizione. Anche se… è un peccato… il bambino è autonomo… non è un bebè… il legame con te è molto forte… La tentazione di prendere quel modulo di rinuncia, metterci sopra il mio nome e mandare a quel paese tutta questa faccenda è stata forte. Non so cosa abbia fermato la mia mano e mi abbia fatto respirare. Ci devo pensare, ho risposto. E sì, hanno ribattuto, sarebbe un peccato.

La giornata è proseguita con un lungo tour tra negozi del fai da te e grandi magazzini in cerca di appendiabiti e tende per la doccia. Giornata ingrata. Durante la quale il mio cervello, che voleva solo andare in pausa caffè, ha continuato a macinare questa storia.

Il passaggio di umore da voglio andare a mai più voglio andare è stato repentino e inaspettato. Forse è successo qualcosa. Sicuramente niente di grave agli occhi del mondo. Qualcosa che lui ha considerato a modo suo (d’altronde è il protagonista della storia, non possiamo negargli le sue reazioni) che lo ha messo a disagio, lo ha spaventato, lo ha fatto sentire scoperto.

Lasciamo stare le modalità un po’ incredibili con cui gentilmente il personale scolastico ha provato a metterci alla porta (aver messo nelle mani di Orlando la cartellina simbolo della rinuncia, accompagnata dalla precisazione se non vieni più, verrà un altro al posto tuo), senza nemmeno chiedere a me un colloquio preliminare. Lasciamo stare pure che il “fallimento” è stato consegnato a mio figlio e alle mie responsabilità, perché la scuola dal canto suo ha fatto il suo dovere, con un’elasticità di modi e regole che lascerebbe perplesso il direttore di un carcere.

Ciò che mi preme è altro. L’idea che l’unica cosa da fare sia aspettare che il bambino si rassegni. La scuola non può andargli incontro, accompagnarlo nei suoi passaggi, mettere in discussione i metodi se non funzionano, calibrarli su di lui perché li possa vestire senza farsi male, chiedere scusa e riconoscere le proprie responsabilità se ha fallito o anche solo se non ha monitorato il bambino durante le ore in cui il genitore gliene ha delegato la responsabilità. No. La scuola si aspetta la sua rassegnazione.

A noi la scelta: restare e provare a incrinare giorno dopo giorno i meccanismi scricchiolanti in cui siamo finiti, oppure andarcene.

Se fossi in ballo solo io sceglierei la prima opzione senza esitare. E non mi limiterei a incrinare. Ma un figlio non è la chiave per dare un’aggiustata alle vecchie storie. Orlando farà le sue battaglie, non le mie.

piccole cose

alba sul pianeta terra

Fare sega (marinare la scuola) ha sempre un sapore fantastico. Anche alla mia età.

Mercoledì Orlando non è andato a scuola. Perché non gli andava. E abbiamo trascorso una bellissima giornata fuori io e lui (gita al Palazzo delle Esposizioni per le mostre sui meteoriti e sul pianeta Terra, da vedere entro il 2 novembre per chi abita o passa per Roma). Ieri mattina di nuovo non voleva andare e ho insistito. Un’ora prima dello squillo della campanella la maestra mi ha chiamata e mi ha detto di andare a prenderlo perché era in lacrime. Poco dopo stava bene, si era ripreso e mi accompagnava nei miei giri.

Alle 13.30 visita dal veterinario. Un rito annuale sempre molto rilassante. D’altronde Ozu è un cane che dà soddisfazioni. “I proprietari di cani e gatti” dice lui “sono terribili. Ne sanno sempre più di te. Per il loro animale ti suggeriscono le cure prescritte ai cani dei loro amici, perché il problema, ti dicono, potrebbe essere lo stesso”.

Bene, quando hai un figlio le cose peggiorano. Non solo i genitori, ma tutti coloro che hanno avuto a che fare con i bambini, anche in tempi così remoti da aver obiettivamente perso la memoria di ciò che è realmente accaduto, dispensano per i figli degli altri consigli, che hanno lo strano retrogusto di piccole innocenti iatture. Almeno il proprietario di cane pensa di avere la scienza del proprio animale.

Ognuno ti dice la sua, si sforza di farti capire cosa ne pensa di questa faccenda, anche se tu non hai chiesto consigli, anche se lo ritieni persona assolutamente poco autorevole in materia, anche se non ne hai più per nessuno e non vuoi sentire storie. Il mondo è pieno di esperti dell’infanzia, formatisi sul campo o lettori di manuali più o meno pubblicati, gente che le cose le sa, perché ne ha viste tante.

Intanto Orlando a scuola non ci vuole andare e stamattina siamo rimasti a casa. E tra noi non è stato un bel clima. Tutti e due sotto stress. Io delusa nella mia aspettativa che tutto vada bene e che tutti siano contenti di fare ciò che stanno facendo. Lui evidentemente sotto pressione.

E allora come faccio a non aspettarmi niente, o comunque a ridurre al minimo le aspettative, prendendo il buono delle cose che arrivano e lasciando indietro ciò che non ci fa bene? Come faccio a contenere il suo bisogno e allo stesso tempo aiutarlo a gestire le sue emozioni? Come faccio a essere contenta se sono nervosa? A dispensare ottimismo e gioia di vivere se l’unico desiderio è starmene chiusa in una stanza isolata dal mondo? A non fargli credere che la scuola sia un ergastolo? Che la vita sia un pozzo di doveri. Che il mondo sia un mezzo inferno. Che non ci siano possibilità. Che la felicità sia una chimera. Per ora l’unica via possibile mi sembra recuperare quel senso di relatività che aiuta gli adulti a sopravvivere (perché non applicare lo stesso principio ai bambini? Perché scegliere per sé percorsi relativi e imporre ai figli quelli assoluti?). E ricordarsi ogni mattina che il caos o il caso o Dio manda in terra: la vita è un privilegio forse unico in tutto l’universo, un viaggio fin troppo breve di cui non va sciupato nulla, da 0 a 200 anni. E di fronte a questa immensità, la scuola è cosa troppo piccola per dannarsi l’anima.

le parole

dancing my way through life di Philippe Leroyer

Orlando della scuola non mi racconta quasi niente. È sempre contento di andare. Lunedì e martedì però all’uscita era nervoso. Forse la stanchezza, ho pensato. Glielo ho chiesto. Perché ti gira? E lui mi ha risposto: io non so le parole per dirlo.

Qualche ora dopo ha trovato le sue parole e mi ha detto: mamma, io ti amo sempre, anche quando non sei con me. Sto bene con te. Sto bene quando non ci sei.

Stamattina si è svegliato tardi e non è voluto andare. Siamo rimasti insieme e ci siamo goduti la giornata io lui e Ozu, tranquilli, senza schiamazzi, senza interferenze. Mi ha detto che domani andrà, perché ne ha voglia e si diverte con i nuovi amici. Intanto cerca di capire cosa gli sta succedendo, si prende i suoi tempi, le sue pause, le cose che lo aiuteranno a trovare le parole.

Questione di principio

Dito Puntato

Se un figlio è un diaframma sul mondo, un luogo che come nessun altro ti permette di toccare le cose col vivo delle tue mani, la scuola è la lente di ingrandimento che te le mostra per come sono davvero.

Il 15 settembre per Orlando è iniziata la scuola. Secondo quanto premesso dalla coordinatrice e ribadito dall’intero corpo insegnante – di ruolo o supplente che fosse – l’inserimento consisteva, dal primo momento, nella separazione netta e senza possibilità di fuga tra bambini in aula e genitori fuori dall’edificio. Orlando non ha accettato. Per la scuola era una questione di principio: si fa così. Il bambino si DEVE abituare. Ne deduco che il principio implichi un dovere.

A dieci giorni dall’inizio, la prima supplente di Orlando è stata sostituita (per fortuna) con una seconda di formazione Montessori perché i genitori si sono accorti che in una struttura Montessori non è ammesso personale non qualificato, dettaglio che il dirigente scolastico aveva trascurato. La nuova supplente ha puntato i piedi e ci ha permesso un inserimento dolce, costato nemmeno una lacrima e durato un giorno e mezzo. Dal secondo giorno Orlando è stato in classe senza di me dalle 9 alle 13 e così per tutta la settimana. Alla faccia di chi sbandierava il distacco con dolore e di chi diceva che il problema ero io.

D’altronde il principio è democratico, di fronte a lui siamo tutti uguali. Non si discute. Arriva e stabilisce regole inalienabili, finché un gesto più o meno dadaista non arriva a sovvertirle. E chi è più dada dei bambini? Se solo volessimo ascoltarli.

L’altro giorno eravamo al parco vicino casa. Parlavo con l’unica madre con cui mi fermo a chiacchierare a lungo. Capitolo dolente: la socialità dei genitori che accompagnano i figli e stazionano con loro nei luoghi deputati all’infanzia. Mi raccontava che da qualche tempo la figlia dorme nella sua cameretta, ma siccome non vuole stare da sola, a turno i genitori dormono con lei su una branda sistemata apposta nella sua stanza. Di fronte alla domanda della madre: perché non la riportiamo in camera con noi? Che fastidio ti dà? Il padre ha risposto: no, deve abituarsi a dormire da sola. Altro principio irrevocabile sul quale, mi pare, si stia aprendo la breccia di una piccola crisi coniugale (coppia allegra e vivace fino a questa estate, ultimamente ho l’impressione che si parlino solo per comunicazioni d’ufficio). Se per caso il principio era stato affermato per aiutare la coppia a ritrovare l’intimità che aveva prima della figlia, l’effetto ottenuto è stato l’esatto contrario.

Potrei fare mille di questi esempi: il principio per cui il bambino non deve abituarsi a stare in braccio, quello per cui non deve ricevere la tetta dopo uno o due anni (c’è addirittura chi pensa che l’allattamento dovrebbe terminare prima dell’anno di vita del bambino), quello per cui il neonato non deve poppare prima che siano trascorse 2 ore e mezza dalla poppata precedente, quello per cui deve restare seduto a tavola fino a quando tutti hanno finito di mangiare, quello per cui deve abituarsi ad addormentarsi da solo, quello per cui deve abituarsi a stare da solo (nel caso non accetti, lasciarlo piangere finché non smette). Insomma, una vita difficile.

Il senso di questi principi potrebbe essere alleggerire l’esistenza dei genitori. Ma secondo me non è così. È molto meno faticoso prendere in braccio un bambino che sentirlo piangere, allattarlo che portarsi il kit delle pappe ovunque nel mondo, portarlo in fascia che arrampicarsi con le carrozzine su per le strade impervie dall’asfalto disastrato di ogni città, farlo dormire nella propria camera (tanto prima o poi chiederà lui di averne una sua) che inventarsi artificiosi stratagemmi per separarlo, concepire un inserimento dolce e comunque diversificato per ciascun bambino che sentirne piangere per giorni dieci tutti insieme. No, secondo me alla base di molti principi non c’è la ragionevolezza né la comodità, c’è una sorta di imperativo, un bisogno incontenibile di obbedire a qualcosa o qualcuno, di non trasgredire il vizio ricevuto, di conservarlo. Alla base di molti principi c’è l’idea di non meritare la felicità.

siamo tutti normali

labirinto

Era il 1867 quando Henri Nestlé metteva a punto una farina in grado di sostituire il latte materno. Quasi un secolo dopo il mondo diffondeva capillarmente la notizia che il latte artificiale è migliore di quello materno.

Intere generazioni cresciute dalla Nestlé, fino quasi a perdere la sapienza dell’allattamento, del proprio corpo e di quello del neonato. Generazioni di asmatici, allergici, atopici, cortisonici, antistaminici.

A partire dagli anni Settanta, contro tutti gli imperativi scientifico-pediatrici e in barba alla sensibilità comune che mal vedeva tette all’aria ad allattare, si è iniziato a scoprire che per un bambino niente è meglio dell’alimento specie specifico umano: il latte della sua mamma.

Oggi le donne provano faticosamente a riprendersi l’antica, originaria sapienza dell’allattamento.

Era il 1840 quando la regina Vittoria, con l’acquisto di tre carrozzine, lanciò tra la nobiltà la moda di portare i bambini non più in braccio o in fascia, ma su un trabiccolo allora peraltro poco sicuro, perfezionato a fine Ottocento da William Richardson, inventore del passeggino fronte mamma, cioè il bambino non può stare a contatto con la madre, ma almeno può guardarla. Meglio di niente. A partire dagli anni Cinquanta nessuno che avesse un figlio in Occidente poteva scegliere di sottrarsi al kit di trasporto dei bambini, da 0 a 20 chili.

Solo qualche decennio più tardi alcuni studi hanno dimostrato che il cervello umano – l’unico nel mondo animale a essere incompleto al momento della nascita: finirà di formarsi nei primi tre anni di vita – si sviluppa meglio in condizioni di contatto continuo tra il neonato e la madre. Da leggere Perché si devono amare i bambini di Sue Gerhardt, Raffaello Cortina editore.

Aspettiamo ora che qualche luminare esperto di neuropsichiatria infantile, appassionato di scienze della comunicazione, scopra che se un bambino piange è perché sta cercando di comunicare sofferenza, e che probabilmente si aspetta che qualcuno prima o poi gli dia ascolto e interrompa la condizione che lo fa star male.

L’inserimento di Orlando non sta andando bene. In modo chiaro e inequivocabile dice che non vuole andare a scuola. Quando entriamo piange.

Io tentenno. Mi spiace perdere l’occasione di questa scuola, ma non sono disposta a sacrificare niente sul suo altare.

Ed ecco che intorno a me si alza il coro di No! Perché no ha diverse origini: non mandandolo gli toglierei delle possibilità, mi toglierei delle possibilità, non lo farei crescere, fra dieci anni mi troverei sola, senza più dovermi occupare di lui e senza sapere cosa fare… Comunque che pianga è “normale” perché il distacco c’è. Peccato che Orlando, quando si separa da me in altre occasioni, non piange. Ma piangere per andare a scuola è normale, cioè è la norma, la regola. Qui funziona così. O stai dentro o stai fuori. Se stai fuori, allora stai proprio fuori e inizia il tuo esilio dal mondo.

“Così gli impedisci di crescere”

“La vita è anche sofferenza”

“Non sta male, è che deve abituarsi a un’altra routine”

“I bambini sono abitudinari”

Ma insomma, questo ragazzino soffre o non soffre?

Sono in attesa che un luminare mi confermi la mia ipotesi: se sorride sta bene, se piange sta male.

Forse semplicemente ogni bambino ha i suoi tempi, i suoi ritmi. Forse non è questo il momento di Orlando. Magari sarà tra un mese o tra un giorno o tra un anno. Chi può dirlo? Forse i bambini piangono perché non si sentono sufficientemente strutturati per affrontare da soli il sistema scuola. Perché lo sanno di entrare in un sistema. Lo sanno a modo loro, senza saperlo dire, ma lo sanno. E forse c’è qualcuno che, chissà, non sarà mai adeguatamente strutturato per entrarci.

Un sistema identico per tutti non può che mortificare la maggior parte dei bisogni e delle aspettative. A qualunque età. Perché mio figlio dovrebbe avere lo stesso identico bisogno allo stesso identico modo nello stesso identico momento di un altro?

Ho come l’impressione che ogni volta che un bambino piange, ci arrivi un richiamo a un ordine migliore che abbiamo smesso di guardare negli occhi.

Intanto osservo il mio cane, mia grande palestra di vita, vecchia, vecchissima saggia, che non ha avuto bisogno di soffrire per crescere e invecchiare. Gli esseri umani sì, loro ne hanno bisogno, e per ovviare all’eventualità che la vita non offra sufficienti motivi per stare male, eccoli a costruire vere e proprie fabbriche dei dolori.

L’inserimento

il cielo sopra berlino

Appesa al cancello a spiare da una fessura mio figlio mentre si aggira nel cortile della scuola preso per mano da una maestra. Per intercettarne la fatica, il respiro, lo smarrimento, gli sguardi.

Tra tanti bambini riesco a individuarlo subito perché riconosco anche i suoi spostamenti d’aria. Tra gli altri, Orlando se piange lo fa in silenzio, quasi a mangiarsi le lacrime per non offrirle a nessuno, perché è a me che vuole darle. E io le accolgo come un dono, come la confidenza di una cosa profonda e grande che si apre con una domanda tanto semplice da venire trascurata: dove sono?

Se provo a rispondere, allora ci sono le mie ragioni, quelle del padre, quelle sociali, ci sono le sue ragioni, della sua vita, dei suoi passaggi, dei compromessi. Ma io non posso, ora, non guardare il mondo coi suoi occhi, il mondo al di qua del cancello oltre il quale mi trovo. Mai l’ho visto così chiaramente. Non posso non chiedergli: dove sei? Allora tutte le ragioni del mondo spariscono e resta solo la sua ragione.

Sarà lui a darmi la risposta, e io l’ascolterò, a dispetto delle aspettative e delle convenzioni. Io potrò solo aiutarlo ad andare incontro alla sua ipotesi, che sia al di qua o al di là del cancello.

Per ora restiamo sulla soglia, a osservare cosa c’è dall’una e dall’altra parte, ad aspettare di sapere scegliere. E mentre aspetto, i dubbi mi ronzano nel cervello: che senso ha un luogo tanto separato delegato all’arbitrio di un adulto che speriamo che sia umano? Che senso ha praticare la separazione in modo così drastico producendo, guarda caso, milioni di esseri umani nevrotici, insoddisfatti, feriti, bisognosi di risarcimenti che non basteranno mai, impreparati ad attraversare i passaggi e le perdite e le unioni? Ma a parlare di queste cose si incappa immediatamente nel ripetitivo, trito, tritissimo giudizio: la solita mamma. Non credo sinceramente di avere la verità in tasca, ma intorno a me di verità ne vedo poche. Mio figlio mi perdonerà, un giorno, se resto aggrappata ai miei dubbi.

Scuola materna. La prima volta

scuola materna

Il figlio è colui che ti riscatterà dai tuoi mali, te ne libererà, ti farà salire nel regno dei cieli, ti farà bello sublime e senza limiti.

Ma arriva il giorno che prende la sua strada, manifesta i suoi limiti, cade nelle sue trappole, ti dimostra che se vuoi il trionfo o un’assoluzione, devi cercarteli da te.

Se riuscirò a non fargliela pagare per questo, mi sentirò già a metà dell’opera di madre. Se saprò proteggerlo dai miei sogni di un tempo, dal sogno di una me stessa perfetta capace di conquistare terre, animi e cuori.

Orlando è timido, si sa. Inutile cercare spiegazioni, girare online per capire le origini, elucubrare sulle vie d’uscita: io non sono da meno. Quasi disdicevole pensare che sarà lui a salvarci dalla timidezza.

Primo giorno di scuola. Inizio io. In anticipo di una settimana su Orlando.

I genitori sono convocati per una riunione con la coordinatrice che spiegherà come funzioneranno l’inserimento e la scuola.

Arrivo davanti al cancello chiuso. Gruppi di genitori chiacchierano allegramente. Mi guardo intorno e cerco di inserirmi da qualche parte, almeno col movimento degli occhi o la torsione del torace. Rinuncio e aspetto con ansia l’apertura del cancello che verrà a interrompere il supplizio della mia esclusione. Finalmente entriamo in aula. Siamo invitati a sederci sulle seggioline dei bimbi. Qui me la cavo meglio: grazie alle mie dimensioni sono meno ridicola, per esempio, della coppia di spilungoni che mi sta dietro. Accanto a me un posto vuoto. Arriva una madre ritardataria, disorientata, evidentemente qui per la prima volta, mi guarda, mi sorride, scuoto la testa, sì sì, e lei si siede. È simpatica. Sospiro di sollievo. È anche ironica. Non ha paura di fare battute. Nell’angolo del nostro avamposto facciamo un po’ di chiacchiericcio. Ma il caos intorno ci interrompe. La coordinatrice si distrae. Ci sono domande? Pausa. E fa l’elenco dei bambini delle tre sezioni. I nostri figli, il mio e quello della mia vicina di banco, non staranno in classe insieme. Peccato.

Mi avvio alla riunione della mia sezione, entro in una seconda aula e mi siedo. Il presagio delle tapparelle rimaste serrate. Nessuno le ha alzate. La maestra sta salutando i genitori dei bambini più “anziani” come se fosse un addio. Poi restiamo noi. Ci presentiamo.

Come non credere al destino, che ci ha portati tra le sue braccia, in una scuola lontana, fuori dal nostro municipio, di cui per caso siamo venuti a conoscenza, che abbiamo scelto senza averla mai vista? È lei la ragione. La maestra per cui vorresti prendere la macchina del tempo e ricominciare, azzerare l’esperienza del tuo asilo fatto senza metodo, senza cuore, senza ragione, e immergerti nella tua nuova possibilità.

Ma il destino sa essere stizzoso, dà e toglie, scherza e si volta dall’altra parte. La maestra di Orlando non sta per niente bene. Non sarà lei ad accoglierci la prossima settimana. Se tutto andrà bene, se tutto andrà bene ci rivedremo a marzo.

Marzo è il mese delle mie promesse. E tutto andrà bene. Io intanto ho messo un piccolo dono alla mia aloe, un rito scemo che mi conforta nelle attese. L’ho messo per lei, perché tutto vada bene, perché a marzo possa di nuovo percorrere le sue strade, e l’ho messo per Orlando, perché sarà fortunato a incontrarla.

Per ora restiamo in attesa della nomina ministeriale della supplente.