Era il 1867 quando Henri Nestlé metteva a punto una farina in grado di sostituire il latte materno. Quasi un secolo dopo il mondo diffondeva capillarmente la notizia che il latte artificiale è migliore di quello materno.
Intere generazioni cresciute dalla Nestlé, fino quasi a perdere la sapienza dell’allattamento, del proprio corpo e di quello del neonato. Generazioni di asmatici, allergici, atopici, cortisonici, antistaminici.
A partire dagli anni Settanta, contro tutti gli imperativi scientifico-pediatrici e in barba alla sensibilità comune che mal vedeva tette all’aria ad allattare, si è iniziato a scoprire che per un bambino niente è meglio dell’alimento specie specifico umano: il latte della sua mamma.
Oggi le donne provano faticosamente a riprendersi l’antica, originaria sapienza dell’allattamento.
Era il 1840 quando la regina Vittoria, con l’acquisto di tre carrozzine, lanciò tra la nobiltà la moda di portare i bambini non più in braccio o in fascia, ma su un trabiccolo allora peraltro poco sicuro, perfezionato a fine Ottocento da William Richardson, inventore del passeggino fronte mamma, cioè il bambino non può stare a contatto con la madre, ma almeno può guardarla. Meglio di niente. A partire dagli anni Cinquanta nessuno che avesse un figlio in Occidente poteva scegliere di sottrarsi al kit di trasporto dei bambini, da 0 a 20 chili.
Solo qualche decennio più tardi alcuni studi hanno dimostrato che il cervello umano – l’unico nel mondo animale a essere incompleto al momento della nascita: finirà di formarsi nei primi tre anni di vita – si sviluppa meglio in condizioni di contatto continuo tra il neonato e la madre. Da leggere Perché si devono amare i bambini di Sue Gerhardt, Raffaello Cortina editore.
Aspettiamo ora che qualche luminare esperto di neuropsichiatria infantile, appassionato di scienze della comunicazione, scopra che se un bambino piange è perché sta cercando di comunicare sofferenza, e che probabilmente si aspetta che qualcuno prima o poi gli dia ascolto e interrompa la condizione che lo fa star male.
L’inserimento di Orlando non sta andando bene. In modo chiaro e inequivocabile dice che non vuole andare a scuola. Quando entriamo piange.
Io tentenno. Mi spiace perdere l’occasione di questa scuola, ma non sono disposta a sacrificare niente sul suo altare.
Ed ecco che intorno a me si alza il coro di No! Perché no ha diverse origini: non mandandolo gli toglierei delle possibilità, mi toglierei delle possibilità, non lo farei crescere, fra dieci anni mi troverei sola, senza più dovermi occupare di lui e senza sapere cosa fare… Comunque che pianga è “normale” perché il distacco c’è. Peccato che Orlando, quando si separa da me in altre occasioni, non piange. Ma piangere per andare a scuola è normale, cioè è la norma, la regola. Qui funziona così. O stai dentro o stai fuori. Se stai fuori, allora stai proprio fuori e inizia il tuo esilio dal mondo.
“Così gli impedisci di crescere”
“La vita è anche sofferenza”
“Non sta male, è che deve abituarsi a un’altra routine”
“I bambini sono abitudinari”
Ma insomma, questo ragazzino soffre o non soffre?
Sono in attesa che un luminare mi confermi la mia ipotesi: se sorride sta bene, se piange sta male.
Forse semplicemente ogni bambino ha i suoi tempi, i suoi ritmi. Forse non è questo il momento di Orlando. Magari sarà tra un mese o tra un giorno o tra un anno. Chi può dirlo? Forse i bambini piangono perché non si sentono sufficientemente strutturati per affrontare da soli il sistema scuola. Perché lo sanno di entrare in un sistema. Lo sanno a modo loro, senza saperlo dire, ma lo sanno. E forse c’è qualcuno che, chissà, non sarà mai adeguatamente strutturato per entrarci.
Un sistema identico per tutti non può che mortificare la maggior parte dei bisogni e delle aspettative. A qualunque età. Perché mio figlio dovrebbe avere lo stesso identico bisogno allo stesso identico modo nello stesso identico momento di un altro?
Ho come l’impressione che ogni volta che un bambino piange, ci arrivi un richiamo a un ordine migliore che abbiamo smesso di guardare negli occhi.
Intanto osservo il mio cane, mia grande palestra di vita, vecchia, vecchissima saggia, che non ha avuto bisogno di soffrire per crescere e invecchiare. Gli esseri umani sì, loro ne hanno bisogno, e per ovviare all’eventualità che la vita non offra sufficienti motivi per stare male, eccoli a costruire vere e proprie fabbriche dei dolori.