sola

Domenica 2 aprile solita giornata dei musei gratuiti. Mi sono detta: vado alla Gnam, ora Galleria Nazionale. L’ho proposto in casa ma nessuno ha voluto seguirmi. E sono andata da sola.

Nella mia vita di madre, una delle cose che mi mancano di più è la solitudine. Non l’isolamento, che è condizione nella quale ogni donna con figlio prima o poi si imbatte. La solitudine, cioè stare da sola, senza nessuno tra i piedi.

Così tutta allegra me ne sono andata in macchina con la radio a volume sostenuto. Sono arrivata in viale delle Belle Arti, ho parcheggiato e sono entrata. Ho snobbato il piccolissimo bar al centro del grande ingresso e sono partita per il mio tour.

Prima emozione. La nostalgia. Per i Passi di Alfredo Pirri, il pavimento specchiante che accoglieva e frammentava e che adesso non c’è più.

Nella prima sala ho trovato opere originali insieme a copie che rimandavano agli originali sistemati all’interno del percorso. Non ho capito e ho proseguito. La struttura della Gnam disorienta un po’, forse come tutti gli spazi grandi per una come me, abituata a vivere in una manciata di metri quadri. Ma questa volta disorienta di più. Va bene. Sarà una scelta. E proseguo. Mi avvicino a una didascalia per scoprire il materiale usato e non trovo niente. Un nome e una data. Di cosa sia fatta l’opera non si sa. Meno male che non c’è Orlando, che non avrebbe tollerato una simile mancanza e mi avrebbe costretta a inventarmi qualcosa.

Morandi sta quasi sempre accanto a Fontana. Il Concetto spaziale di Fontana sta vicino ai Bachi da setola di Pascali. L’ultima cena di Ceroli sta davanti al tavolo dei gessi. Le statue classiche voltano le spalle ai visitatori. Non capisco. Non è che io voglia vedere la storia dell’arte sistemata in ordine crescente e cronologico. D’altronde ormai lo sanno anche i sassi che nel postmoderno tutto risale indistintamente alla superficie. È la realtà. Fuori dai cardini. Ma quegli accostamenti, niente affatto casuali, non li ho capiti.

Non c’è una guida. Non c’è dialogo con i visitatori. Solo suggestioni, che non è detto corrispondano alle mie.

Il bellissimo Centro di permanenza temporanea di Adrian Paci è messo all’angolo. Peccato. Avrei voluto vederlo al centro dell’arte e dell’umanità, anche in un percorso che lo mostrasse solo alla fine, con un effetto sorpresa.

In chiusura ci sono delle schede dove i visitatori sono invitati a votare il più bello e la più bella delle figure incontrate nel percorso espositivo. Come se il bello fosse l’unico sopravvissuto in un mondo andato in pezzi.

Io non so cosa debba fare l’arte di se stessa. Non sono un critico né un’artista. Ciò che più mi manca della vecchia Gnam è il gioco, il filo mirabolante che lega le opere contemporanee al bambino, quello vero che qui può ancora capitare e quello nascosto tra le spoglie dell’adulto, preso per mano e portato su incredibili, nuovi pianeti. È la prefigurazione, suscitata anche attraverso l’arte combinatoria, di combinazioni che nella frammentazione di un mondo ne sappiano rintracciare un altro. È la ricerca, spesso disperata ma necessaria, di una forma ancora capace di rivelarsi tra le fratture di uno specchio rotto. È la sovrapposizione di opera e materia, perché è nel tentativo faticosissimo di segnare il confine tra il sé e la terra che può nascere un’identità. È ciò che un bambino sa fare: iniziare a vivere.

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