la festa dei debuttanti

la danza dei manichini

Quando i bambini iniziano ad andare a scuola, le madri vengono investite da una valanga di inviti. Ovunque piovono feste di compleanno. Di ogni singolo bambino di classi stipate di scuole giganti di città affollate di milioni di abitanti. Una bella occasione per conoscersi meglio, fuori dai ritmi stretti dell’entrata e dell’uscita. Per chiacchierare. Fare gruppo. Condividere con i figli le amicizie. Venti infinite occasioni per stare tutti insieme.

Abbiamo avuto anche noi la nostra opportunità. È arrivato l’invito. Tutti al party. Il padre di Orlando ha avuto pietà di me e ci ha accompagnati. Una festa al parco. All’aperto. Ottima notizia. Ci si dilegua più facilmente. Ci si disperde. Ci si nasconde dietro un albero o un cespuglio. Ci si dissimula tra gli estranei a passeggio.

Orlando ha i suoi soliti dieci minuti per acclimatarsi. Poi si lancia. Resto un po’ in disparte. Meno male che non sono sola. Mi sento come quando, a quindici anni, venivo invitata a una festa dove non conoscevo nessuno. Non è una situazione facile. Ogni particolare va studiato al millimetro. Da quando arrivare a quando andarsene. Se mangiare. Cosa mangiare. Come vestirsi. Cosa portare. Chi salutare. Col figlio è pure peggio. Stargli attaccata. Stargli lontana. Un po’ attaccata e un po’ lontana. Togliergli il maglione. Mettergli il maglione. Intervenire in caso di botte. Non intervenire mai. Raccoglierlo da una caduta. Lasciarlo per terra.

Intanto bisogna subito capire dove mettersi. Non al centro. Ci si sentirebbe a disagio. E gli altri potrebbero pensare a una forma di sgradevole esibizionismo. Di lato. Ma non troppo. Sembrerebbe snob verso gli altri invitati. La posizione giusta è in diagonale, poco oltre la metà della linea che dal centro va all’angolo estremo. Più vicino all’angolo che al centro. Ma di poco. Non una linea che va verso un angolo qualsiasi. Ma una traiettoria che arriva dritta a un angolo importante, dove si concentra un bel gruppo, possibilmente l’anima del gruppo. E da quella posizione un po’ defilata, cercare di intercettare brani di conversazione, tentare di dire la propria, infilarsi a tratti tra le parole degli altri, evitare affermazioni perentorie, tenere un tono medio e confortante, non farsi notare, non apparire insipida. Mangiare una pizzetta ogni tanto è consentito. Permette di muoversi. Di aggiustare la propria posizione anche in relazione a come nel frattempo si è spostata l’anima della festa. Mangiare una pizzetta inoltre potrebbe aiutare a fare amicizia.

E il tempo scorre. Anche alle feste di compleanno. Anche se loro, le feste, vorrebbero fermarlo. Espellerlo. Distruggerlo.

Forse è arrivata una buona notizia, una scoperta, un indizio, una crepa nella certezza del ciclo vitale: forse qui, nelle feste di compleanno, si nasconde il segreto della vita eterna.

Tutti stanno per cadere nell’inganno. Per eliminare dalla mente ogni angoscia e paura. Stanno per toccare il cielo con un dito. Per un attimo. Poi tutto finisce. Perché lui, il tempo, è al di sopra di ogni cosa e vince. E arriva la sera. La torta. I regali. Ognuno il suo. Noi abbiamo fatto un piccolo dono. D’altronde sono venticinque bambini. Almeno due compleanni al mese. Comunque il nostro piccolo dono sembra piuttosto striminzito rispetto agli altri. C’è solo da sperare che nessuno si volti a guardarci. E aspettare il turno del prossimo pacco. Per fortuna il festeggiato scarta all’impazzata e non dà tempo di riflettere. Ma io lo so. Qualcuno ha registrato il dato e lo ha messo nel cassetto delle cose sulle quali tornare a riflettere, stasera perché adesso non c’è tempo. Hai visto i nuovi arrivati? Che figura con quel regalo.

La festa sta per finire. La torta è stata servita. Il sole è calato. L’umidità risale dai piedi. È quasi ora di andare a casa. Forse è arrivato il momento di sciogliere il ghiaccio. Accanto a me sento parlare di grembiuli. Potrebbe essere la mia occasione. L’ultima della giornata. Non ce ne saranno altre. La colgo e mi volto contenta: voi glielo mettete? No no. Le mie sono vanitose… Lo porto ma non lo mette… Nemmeno Orlando. Però certo, se lo mettesse eviterei di cambiarlo due volte al giorno. Lei si gira verso di me, mi guarda e fa: no, io gli stessi vestiti non glieli rimetto mai. Veramente non volevo dire… nemmeno io… Ma ormai è tardi. Non mi ascolta più.

Poi miracolosamente, sul declinare del giorno e delle cose, accade. È lei, la mia donna. Lei, che la mattina arriva in classe con una spazzola per allisciare al volo la chioma del figlio. Lei che bracca il bambino perché il pericolo si nasconde ovunque. Lei che dice quello che pensa. Che da piccola ha visto Ryu il ragazzo delle caverne. Che non ha peli sulla lingua e se ne frega dei giudizi. Che fa i complimenti al mio compagno per non essere mai collaborativo nelle faccende domestiche, rivelando così, almeno, coerenza e onestà intellettuale. Mica come suo marito. Lei. L’imperfetta. Quante delle mie più belle amicizie sono nate così. Con la sorpresa. Col mio sorriso d’incanto di fronte alla loro apparente follia.

Ma il tempo inesorabile scorre. È buio. La festa è finita.

teatro

teatro compensato tempera nera e blu, chiodi, puntine (palco, fondale); stoffa e laccetti (sipario); carta e pennarello (scenografia). orlando e monica ottobre 2015
teatro
compensato, tempera nera e blu, chiodi, puntine (palco, fondale); stoffa e laccetti (sipario); carta, pennarello, scotch intercambiabili (scenografie).
orlando e monica
ottobre 2015
teatro, playmobile
cenerentola, playmobil
cenerentola
cenerentola, playmobil

 

 

 

 

A caccia di film. Balto. Il lupo nel cuore

lupi

Amavo il freddo e l’inverno, le serate in casa, la sigaretta e il bicchiere di vino, le cene con gli amici, il rumore della pioggia, le giornate corte, il buio incalzante, le galosce e il mare in tempesta. Poi è arrivato Orlando e il mondo intorno a me ha fatto una capovolta.

Com’è bella l’estate ora, con le sue giornate lunghissime, le serate al parco, le atmosfere surreali.

Tra i vantaggi del tornare un po’ bambini e rivivere una seconda infanzia, più vicina ai nostri desideri della prima, tra i molteplici, inaspettati benefici dell’essere genitore, ci sono i cartoni animati. Quelle lunghe storie dove si può ridere e piangere a dirotto, e le emozioni sono libere.

L’altra sera abbiamo visto Balto, la storia di un cane che ha salvato molti bambini di una piccola città dell’Alaska. Balto è esistito davvero. Nel 1925 ha guidato la slitta che portava a Nome la cassa di medicinali con cui l’unico medico della città avrebbe curato i malati di difterite. Nel 1995 Steven Spielberg ha prodotto il film di animazione diretto da Simon Wells tratto dalla vera storia di quella slitta della salvezza.

Balto è cane solo per metà. L’altra metà è lupo. Selvaggio, indomabile, natura pura ululante. Per questo gli umani non si fidano di lui, per quel suo essere ai confini della regolarità, oltre la soglia della ragione e della ragionevolezza, oltre ciò che si può tollerare. Nel suo essere selvaggio, Balto è ostinato, e innamorato, è più forte del più forte dei cani, perché nel suo cuore risiede la natura dei lupi. Il suo olfatto è più fine, la sua intelligenza più acuta. Il suo amore è puro. Come ogni eroe, Balto accetta la sfida: rinunciare a diventare del tutto cane, accogliere la propria natura emarginata e offesa, farne la propria forza e donarla agli altri. E alla fine è il lupo a salvare i bambini.

c’è chi dice no

inside out

Leggevo un interessante articolo su Inside out, che rispondeva in modo appropriato alle parole di Polito sul film. Niente da eccepire, a parte la teoria secondo la quale per sovvertire le regole bisogna prima averle digerite. Discorso talmente sentito che ormai si confuta da solo. Potremmo spendere intere giornate a parlare dell’origine delle regole, della loro arbitrarietà, della loro relazione con la nostra intima natura. Ma la cosa che più mi ha colpito dell’articolo è un’altra: il principio di piacere nei bambini. Giusto. Vero. Sono pienamente d’accordo. Ma allora Orlando che fase sta attraversando? Sono mesi che dice no. Sembra entrato in anticipo nell’età dell’adolescenza. Nega, rifiuta, spezza possibilità di compromesso. Sembra Riley dopo il trasloco. E tu pensi. E no. Sei ancora lontano dall’avere 11 anni. E non abbiamo cambiato città. E la tua amica del cuore non ti ha tradito, anzi, i tuoi amici del parchetto hanno aspettato che tornassi e quando finalmente ti sei deciso a farlo, dopo mesi che ti rifiutavi di entrare, ti hanno festeggiato. E a scuola non ti ci voglio lasciare anche il pomeriggio. Sono solo poche ore. Ascoltami. Poche ore e poi stiamo tutto il giorno insieme. Mettiamoci d’accordo. Ce la puoi fare. Ce la possiamo fare.

Ma Orlando non molla facilmente il suo osso. Al limite dell’irragionevolezza.

Perché i bambini dicono no? Come al solito chiedo all’oracolo 2.0. Sempre divertente entrare nei forum. Io sono stato cresciuto a suon di schiaffi e sto benissimo… Questi bambini d’oggi… Vogliono comandare loro… Ho sentito madri chiedere ai figli cosa volessero per merenda… Io ai miei tempi mangiavo quello che c’era… Non viene insegnato il rispetto… È colpa dei genitori…

Continuo a sfogliare pagine web e arrivo finalmente al mio Juul. Un’intervista che tocca il tema dei no che i bambini ci offrono. Un dono. Un percorso attraverso il quale i nostri figli conquistano l’autonomia, la capacità di riconoscersi come persone separate da noi. E noi? Cosa possiamo fare? Perché non è facile convivere con i loro rifiuti.

 

Di seguito l’intervista, pubblicata su www.aduc.it

Sdz: Instancabile il suo richiamo alla rilassatezza nel concitato dibattito sull’educazione. Ma non trova che a volte i bambini facciano terribilmente innervosire?
Juul: Certo. Non v’è dubbio. Quando si hanno dei figli viene a mancare l’attenzione verso se stessi. E credo che sia proprio questo a essere faticoso. Ma ci sono tanti genitori che si rendono la vita anche più dura del necessario.
Sdz: Qual è la giusta misura?
Juul: Se gli adulti non hanno abbastanza tempo per sé, e i genitori non abbastanza per la coppia, è perché dedicano troppa attenzione ai figli. E in questo modo non fanno loro un favore. Nessun bambino vuole essere oggetto d’attenzione. Gli serve un rapporto, vuole partecipare alla vita dei genitori. Soprattutto i bambini che frequentano l’asilo nido e la scuola materna hanno assolutamente bisogno di passare un po’ di tempo con gli adulti che fanno vita da adulti. Nella scuola materna i bambini imparano a essere bambini. Cantano, danzano. Ma non imparano nulla sugli adulti. E ne vediamo le conseguenze. Molti adolescenti non hanno competenze di vita. Diventano depressi perché non sanno come gestire le delusioni.
Sdz: Ma queste cose non le imparano già al nido? Lì c’è abbondanza di delusioni, frustrazione, competizione.
Juul: Imparano a essere frustrati. Ma non a come si rimedia. Per questo ci vogliono i genitori. Esattamente come per lo stress. Anche in quel caso devono imparare a conviverci. I bambini oggi hanno una vita stressante. Entro i 15 anni trascorrono 25.000 ore in strutture pedagogiche. E’ lavoro.
Sdz: Perché è impegnativo?
Juul: Perché stanno insieme bambini e adulti che non si sono potuti scegliere. E perché ci sono tanti stimoli. I bambini ne diventano dipendenti. Cominciano a piagnucolare appena li si va a riprendere: “E ora che si fa?” E’ importante che i genitori qualche volta dicano: “Ora devi giocare da solo. Voglio cucinare e avere mezz’ora per me”. In questo modo imparano come si vive da adulti. I bambini possono sopportare molto più stress di noi, molto di più…
Sdz: …è proprio l’impressione che hanno le giovani mamme ogni giorno…
Juul (ride): Ma devono anche imparare come se ne esce. Si può dire al figlio: “Oggi sono molto stressata. Mi puoi aiutare?” Poi si prende la mano del bambino, la si poggia sulla pancia, si respira e basta per un paio di minuti. Più tardi si può fare l’inverso. “Vuoi la mia mano?”, e così il bambino ha imparato qualcosa d’importante.
Sdz: Per i genitori educare è spesso uno stress.
Juul: Non sono stressati dall’educazione, ma dal peso di dover riuscire. “Da tre giorni il bambino non s’addormenta. Sono una cattiva madre?” A impegnare è l’obbligo di educare, mentre potrei benissimo decidere che nelle prossime tre settimane voglio soltanto godermi i miei figli. Così imparerei che dipende dal mio atteggiamento. Ciò di cui i bambini hanno davvero bisogno è di poter essere vicini e che i genitori siano contenti della loro esistenza.
Sdz: Chi intende educare ha comunque l’impressione che quel che entra da un orecchio esca dall’altro.
Juul: La maggior parte di quanto intendiamo per educazione, in realtà non educa. Il comportamento dei nostri figli a vent’anni non dipende dall’educazione, ma dalla convivenza in famiglia. Siamo modelli, buoni e cattivi, 24 ore al giorno.
Sdz: Preferiremmo essere dei buoni modelli.
Juul: E’ un’idea romantica, ma impossibile. Siamo semplicemente dei modelli. Punto. Non c’è giusto o sbagliato. I figli non hanno problemi con gli sbagli, fintanto che ce ne assumiamo la reponsabilità e ammettiamo il nostro disagio e i nostri limiti. Se i genitori però non lo fanno, loro si sentono colpevoli.
Quanto di buono facciamo oggi, lo abbiamo per lo più imparato dai modelli sbagliati, di cui diciamo: “Così non voglio fare”.
Sdz: Lei dice che all’inizio era un padre tremendo? Perché?
Juul: Ero sempre frustrato. Per esempio non sapevo come si gioca con i bambini, perciò mi sentivo a disagio. Ma, tramite la formazione da terapeuta famigliare ho appreso che era possibile imparare da mio figlio. Gli ho semplicemente chiesto: “Non so come funziona. Me lo puoi mostrare?” E lui era contento.
Sdz: Era contento sì; ai bambini piace tanto comandare.
Juul: Ed è importante. E’ così che stabiliamo un dialogo con loro. Ciò che è decisivo nel rapporto con mio figlio non è se faccio bene o male. Bensì se ho imparato a essere padre insieme a lui. E’ questo processo d’apprendimento comune che genera buone relazioni. Se io sono il maestro e lui l’allievo, non abbiamo un rapporto, ma interpretiamo due ruoli. Ciò non significa che l’autorità spetti ai figli. Significa solo: prendi sul serio l’effetto retroattivo di tuo figlio!
Sdz: Quale retroazione intende? “Non voglio andare a letto”…?
Juul: Anche. Se per settimane non sono riuscito a mandare a letto mio figlio, posso chiedergli, anche se ancora non sa parlare: “Senti un po’, tutte le sere lottiamo per ore. Non mi va di essere un padre così. Però non so cosa fare”. Si può anche piangere un pochino. Un dialogo come questo è quanto mai costruttivo.
Sdz: Crea contatto anziché distanza.
Juul: Sì, e spesso il bambino si gira dall’altra parte e s’addormenta. Una volta l’avremmo punito. Ma proviamo a immaginare un uomo che ascolti musica a tutto volume, arriva sua moglie e inveisce: “Quante volte t’ho detto che non sopporto la musica così forte? Per punizione stasera non potrai vedere il programma di sport”.
Sdz: Vorrebbe dirci che i rapporti tra adulti sono uguali a quelli tra genitori e figli?
Juul: No, i figli hanno bisogno di una guida. Hanno pari dignità, ma non pari diritti. Hanno bisogno di genitori che sappiano più o meno quel che vogliono. Non è importante cosa vogliono, purché i confini non scaturiscano da convenzioni, ma siano personali. Va benissimo dire: “Non mi va di leggerti una storia, voglio leggere il giornale”. Oppure: “Ho avuto una lunga intervista con quel danese, ora sono stanca”. Non è che possiamo essere sempre felici. Dobbiamo solo essere sinceri l’un con l’altro.
Sdz: E cosa pensa del premio al posto della punizione?
Juul: La ricompensa è la versione postmoderna della punizione. Provi a immaginarsi una donna che premi suo marito ogni volta che fa qualcosa di buono. Non sarebbe un rapporto intimo, ma tra un capo e il suo subalterno.
Sdz: La “madre-tigre” cinese Amy Chua, che promuove la coercizione quale metodo educativo, è molto sincera con le sue figlie: dice chiaramente ciò che s’aspetta da loro.
Juul: È una cosa che può andar bene per un certo tempo – fintanto che i figli corrispondono. E all’inizio lo fanno. I bambini cooperano. Sempre. Non desiderano altro che far contenti i genitori. Ma se ai figli della madre-tigre tocca un destino avverso non sapranno più come agire, e potrebbero crollare.
Vorremmo che i nostri figli diventassero degli adulti mentalmente e psico-sociologicamente sani.
Sdz: Ma parlare è utile?
Juul: Sì, parlare ed essere genuini. Se si vuole prevenire la dipendenza dalle droghe o dai media, bisogna stabilire un rapporto nei primi dieci anni di vita. A dodici è tardi. Se mio figlio in pubertà assume droghe o vede troppa tv non sarò io a poter decidere su queste cose. Ma se abbiamo un legame, il rispetto reciproco e un linguaggio comune, possiamo parlare delle mie preoccupazioni e della mia contrarietà.
Sdz: Con un treenne cocciuto parlare è ben difficile a volte.
Juul: Nella fase dell’autonomia i bambini inziano a costruire la fiducia in se stessi. Se dicono sempre di no, significa solo: “Io sono autonomo”. Non è meraviglioso? Se la si prende da questo lato, non capita nulla. Ma se la si butta sul personale, la cosa diventa ardua. A quel punto inizia la lotta.
Sdz: Ma a volte i genitori devono pure ottenere qualcosa, per esempio arrivare puntuali al lavoro.
Juul: Ai bambini la cosa non va sempre giù, e per i genitori è sicuramente frustrante. Però lo stesso accade tra adulti. Non conosco nessun uomo che non sappia cosa sia aspettare sua moglie per quei dannati 20 minuti. Se si è sufficientemente frustrati, si può dire: “Senti un po’, non lo sopporto”.
Sdz: Serve davvero?
Juul: Mio fratello è un buon esempio. Quando è nato il suo secondo figlio, il maggiore era terribilmente geloso. Allora mio fratello ha letto i miei libri. All’inizio diceva: “Quello che consigli non funziona”. Però alla fine ha funzionato. E’ scoppiato in lacrime. Ed era autentico quando ha detto: “E’ una cosa che rattrista tanto papà”. Da quel giorno il figlio maggiore non ha più picchiato il fratellino. Essere autentici è la soluzione.
Sdz: Se dunque voglio che mio figlio si vesta, gli devo dire: “Hai cinque minuti, poi usciamo”. E dovrei pensarlo davvero?
Juul: Sì, esattamente. E quei cinque minuti glieli deve concedere senza più intervenire. Se i bambini non hanno la possibilità di dire di no, non è che dicano di sì. Al massimo diranno sissignore. Sapendo che: “In questo modo non sono nulla; in questo modo sono solo un soldato”. E’ terribilmente importante che i genitori parlino di sé: “Non sono riuscito a convincerti a vestirti di tua volontà”.
Sdz: E che cosa non si dovrebbe dire?
Juul: “Sei impossibile” o frasi simili. E’ umiliante. I bambini sono vulnerabili, scoperti. Perché noi adulti abbiamo paura? Perché i nostri genitori ci hanno sempre ferito in quel modo.
Sdz: Si può piangere, gridare, infuriarsi?
Juul: Sì, tutto. Tranne che ferire o offendere il bambino. I neoromantici pensano che i loro sentimenti nuocciano al bambino. Invece è l’assenza di sentimenti a danneggiarlo.

(Intervista curata da Christina Berndt per la Sueddeutsche Zeitung del 21-02-2011. Traduzione di Rosa a Marca)

Tristezza

Tristezza pennarello su carta Orlando ottobre 2015
Tristezza
pennarello su carta
Orlando
ottobre 2015

Ieri ho accompagnato Orlando a scuola e lui si è fatto tirare fuori dall’aula in preda a una crisi nervosa e di pianto. Non un semplice pianto, ma il grido di chi deve scappare da uno scannatoio. Me lo sono riportato a casa mentre la maestra mi diceva: il bambino deve piangere. Tutti piangono. Giornata nera per me e per lui.

Che senso ha? Mi chiedevo mentre il tempo scorreva lento verso sera. Il problema sei tu. Il problema sono sempre io. Va bene. Ma lui? Qual è il suo problema? Perché i bambini piangono a scuola? Sono al computer. Digito. Leggo. Bisogna lasciarceli, voltare i tacchi con un sorriso rassicurante e uscire. Piangeranno ogni giorno di meno. Una madre iperprotettiva impedisce al figlio di separarsi, cioè di crescere. Il bambino deve abituarsi. In sostanza si deve rassegnare. E pensare che io avevo immaginato l’esatto contrario: quando il bambino impara a conoscere il nuovo ambiente, è allora che si affida. Una relazione di fiducia e non di rassegnazione. Vado alle pagine dei teorici dell’homeschooling: un percorso naturale, sereno, nel quale il bambino si costruisce in modo assolutamente non violento. Poi mi tornano in mente le parole della pediatra psicanalista dalla quale siamo scappati: un bambino nato col cesareo (Orlando) non ha vissuto attivamente la separazione che dà origine alla vita, il parto. In questo dovrà aiutarlo lei. Pazzesco. Io, da sempre eternamente in fuga, mi trovo a dover aiutare qualcuno, e non uno qualsiasi, a separarsi in modo equilibrato. Da me! La vita è proprio tutta un contrappasso.

A leggere e a sentire gli altri, qualunque cosa farò sbaglierò. Perché in fondo, ognuna di quelle analisi ha delle ragioni. Torno alla mia domanda. Perché Orlando piange a scuola? Ha iniziato a farlo quando ha capito che lì sarebbe andato tutte le mattine, tranne il fine settimana. Quando ha capito che la scuola è un sistema di vita. Posso dargli torto? No.

Però possiamo cercare un compromesso. Allargare le maglie del sistema. Passarci attraverso. Dentro e fuori. Senza rinunciare e senza accettare tutto. Renderle leggere, sostenibili, e prendere il buono che là dentro c’è. Ma come faccio, in una manciata di giorni, a insegnare a mio figlio quello strano, sbilenco gioco di equilibri che da tutta la vita sto tentando di mettere in piedi?.

Ieri sera Orlando ha fatto un disegno per me. Ha disegnato Tristezza, il personaggio più bello e complesso di Inside out. La sua tristezza. E me l’ha donata.

Questa mattina siamo usciti prima del solito. Sono stata dentro la classe con lui fino alle nove. Poi sono rimasta là fuori, in modo che lui potesse vedermi quando ne aveva bisogno. In barba a tutti quelli che mi dicono che il bambino DEVE piangere.